STORIE
15-04-2017 di Freddie del Curatolo
Sole e sabbia salata, bianco accecante che va a sfumare nelle veloci nuvole passeggere, come se la terra d’Africa volesse scrollarsi di dosso una patina fastidiosa.
Il verde della boscaglia è puntellato dai contorni alti delle palme e degrada fino a quando, vinto dall’arsura, non si trasforma in blu.
Lontano, si scorge la piattaforma per le ricerche spaziali della base italiana San Marco.
In questo surreale scenario, inedito scorcio keniota, quattordici anni fa è nato Baraka Badi.
Siamo a Ngomeni, trenta chilometri da Malindi, sulla strada che porta a nord, verso la Somalia.
Qui nel 1965 uno scienziato italiano, il professor Luigi Broglio, scendendo da Mogadiscio, dov’era sbarcato, individuò il punto giusto per installare un centro di ricerche aerospaziali.
Meridiano Uno, poche centinaia di chilometri sotto l’equatore.
I tecnici che arrivarono furono i primi connazionali a mettere radici sulla costa del Kenya.
Alcuni di loro vivono ancora qui e hanno visto crescere i genitori di Baraka. Li hanno guardati macerarsi sotto il sole, tenere la loro resistente pelle sotto sale per anni.
Infatti a Ngomeni oltre alla base San Marco, ci sono le saline.
Abbaglianti distese bianche da percorrere a piedi nudi, cumuli di sassi roventi da spalare.
Le saline sono una delle poche possibilità di lavoro sicuro per gli abitanti della zona.
I più fortunati sono stati assunti dai tecnici mzungu, agli altri non resta che il sale.
Dura la vita alle saline: pelle che brucia e si spacca, condizioni di lavoro inaccettabili.
Tra i bianchi cristalli si è consumato uno dei primi scioperi kenioti.
Le aziende del sale sono governative o in mano a ricchi indiani, i lavoratori si sentono sfruttati non meno che ai tempi del colonialismo britannico. Certo, si possono pescare i gamberi, in mezzo alle saline, e arrotondare con quelli. Ma poi chi ha tempo di venderli? Alla fine li metti sulla bicicletta di un cugino, li carichi su un matatu con un amico che prova l’avventura di andare a piazzarli a Malindi e torna quasi sempre a mani vuote, oppure con due spiccioli per te e il resto in pancia o nella gola.
Allora si ritorna sul tappeto di chiodi bianchi, ci si fasciano i piedi e la testa con gli stracci, si fissano le vecchie lenti da sole comperate al mercato di Garsen con il nastro adesivo e si imbraccia la vanga. Per un euro al giorno.
Al padre di Baraka non è mai piaciuto il sale.
Ha iniziato a battere il ferro e la latta fin da ragazzo.
Ogni tanto ha prestato le sue braccia alla San Marco e, dopo anni di pratica, qualche mzungu della zona gli da lavoro.
Quando arriva il lavoro per il bianco, c’è qualche soldo per mandare a scuola i ragazzi, ma non sempre accade.
A volte per mesi e mesi devi vivere di espedienti, inventarti lavori o sapere che terminerai la giornata con cinquanta scellini in saccoccia e avrai i soldi per dividere con tua moglie e i ragazzi mezzo chilo di polenta e un piatto di fagioli.
Spesso non ci sono nemmeno i fagioli, e allora si inzuppa la polenta in acqua e sale.
Il maledetto sale.
Baraka è il quarto di cinque fratelli. La sorella maggiore Amina era portata per gli studi, ma ha dovuto lasciare la scuola superiore al terzo anno.
Mancavano i soldi per le rette e i libri. Mariam, la secondogenita, ha preferito sposarsi a sedici anni e dopo poco ha dato alla luce il primo figlio pensando che, chissà, forse quando avrà la sua età le cose saranno diverse, forse potrà garantirgli un futuro migliore.
Amani invece ha deciso che non vuole studiare.
Vive di espedienti, coltiva spinaci e fatalismo, aiuta il padre e ammazza i giorni come fossero serpenti.
Baraka a sei anni si ritrova tra i piedi un pallone mezzo sgonfio e rattoppato e capisce qual è la sua passione.
Ogni giorno, dopo la scuola, corre al campo di calcio, due porte di ferro tra le saline e la strada polverosa che porta alla base.
Dribbla i sassi, i ciuffi d’erba, le naturali gibbosità del terreno. I suoi primi avversari, tutti insieme contro le disgrazie della vita.
Baraka scatta, passa, tira e molto presto entra nella squadra junior di Ngomeni. Osserva i ragazzi più grandi quelli a cui, finite le scuole dell’obbligo, rimane solo il pallone.
“Non vogliono lavorare alle saline ma non vedono un futuro diverso da quello. La loro giornata è una partita di calcio e dopo si riposano all’ombra di una palma. Vivono alla giornata, sperano di poter mangiare almeno una volta prima di andare a dormire. Poco a poco perdono ogni minima ambizione”.
A Baraka piace studiare e non ha intenzione di fare la fine della sorella Amina. Capisce che il suo futuro è lontano da Ngomeni.
Così si allena più duramente degli altri e a dodici anni si ritrova nella squadra con i diciottenni.
Si mette in difesa, sulla fascia, e aspetta la palla come una possibilità per emergere, per dimostrare di essere già grande e di voler crescere ancora.
E’ così che, qualche anno fa, si avvicina alla scuola calcio del Genoa.
Raro trovare un ragazzo così giovane con una tale strenua volontà.
A sentirlo parlare, appena arrivato, sembra di essere di fronte a un ometto.
“Mi piace studiare e giocare a calcio e quando ho capito che a Malindi avrei potuto fare quello che ho sempre sognato, non ho avuto esitazioni. Ci ho provato. Durante le selezioni ho dato tutto me stesso per raggiungere questo obbiettivo”.
Baraka fissa la sua meta, vuole arrivare un giorno a giocare nella Premier League keniota, ma se dovesse scegliere, preferirebbe iscriversi all’università.
“Magari, tramite il mio stipendio da calciatore, potrei laurearmi e diventare professore. Mi piacerebbe, un giorno, insegnare ai più piccoli ad amare lo studio, perché è un modo appassionante per sconfiggere, nel nostro piccolo, la povertà”.
Per Baraka la cultura è una salvezza, ma il calcio è una palestra di vita.
“Per diventare un buon giocatore devi imparare innanzitutto le regole e rispettarle. Se non conosci i principi fondamentali di questo gioco di squadra e fai di testa tua, non arriverai da nessuna parte. Anche nella vita è così, credo. Io gioco terzino, ma potrei anche avanzare a centrocampo, mi piacciono i calciatori che usano l’intelligenza in campo, prima ancora che il piede. Il mio campione preferito è Xavi, il regista del Barcellona. In pochi secondi, prima ancora di ricevere il pallone, sa già cosa ne dovrà fare”.
A quattordici anni ha una maturità che fa venire brividi di speranza.
Dalla scuola calcio “sociale” passa ben presto alla prima squadra della Malindi United.
E’ il più giovane e anche il meno alto.
Ma le sue gambe da fatica e la sua voglia di non tornare più indietro gli fanno scalare le posizioni.
A sedici anni è titolare, a diciassette è il migliore a scuola.
Anche Malindi inizia a stargli stretta.
E’ così che viene spedito a nord, nella palestra di calcio della Premier League: Thika United.
Dove prima si finiscono gli studi, poi si esordisce in campionato. Prima uomini, poi calciatori.
Baraka è già un uomo, ma il sorriso è ancora quello di un bambino che sta realizzando ciò che nemmeno riusciva a sognare, perché perfino in sogno gli sembrava troppo.
Ma il merito è solo suo.
A diciotto anni esordisce nella Serie A keniana e ha uno stipendio rispettabile, tutto suo.
Oggi, che ne ha venti, ha già qualche presenza nella nazionale Under 21 e ha fatto il primo stage con le Harambee Stars, la nazionale maggiore, accanto a giocatori come Victor Wanyama, che gioca in Inghilterra nel Tottenham Hotspurs, secondo in classifica, e guadagna in una settimana quello che suo padre, alle saline, non è riuscito a portare a casa in tutta una vita.
Non smette di sognare, Baraka, che ha dato un calcio al sale sotto i piedi e all’ancestrale rassegnazione dei suoi amici di Ngomeni, e ora quel sale ce l’ha solo nella testa.
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