MAL D'AFRICA
24-01-2017 di Andrea Fast Scaramuzza
Molto ci è stato raccontato ed altrettanto abbiamo letto riguardo l’Africa prima di partire per la prima volta. Da un lato del tavolo, chi ci serviva piatti colmi di ansia e paure: la pericolosissima malaria, trasportata da una speciale zanzara che passa la vita a cercare i wazungu (uomini bianchi, ndr) che arrivano per la prima volta nel continente nero, per la quale è assolutamente necessario imbottirsi di pastiglioni per tutta la durata del viaggio ed oltre nonostante la copertura non sia al 100%.
I terroristi di Al-Shabaab, che con diligenza ti attendono al varco mentre cerchi di capire cosa c’è dentro le Samosa sorseggiando il tuo Kenyan coffee che speravi fosse un espresso Lavazza, nonostante le statistiche dicano che le probabilità di trovarsi nel mezzo di un attentato siano una su 25 milioni (essere colpiti da un fulmine 1 su 817 mila): praticamente ritrovarsi in Africa durante un temporale è morte certa.
“Li il nero sei tu, apri bene gli occhi e non uscire troppo, soprattutto di sera”; obbligatorio programmarsi una scorta locale fidata che ti accompagna in spiaggia dalle 11 alle 17, chiaramente pranzando e cenando in ristoranti e resort turistici ben rinomati dove non ti ruberanno il portafogli con forza, se non con un conto pari ad un mese di pranzi e cene da Simba. Non sto ad aggiungere i vari contorni con tema gli animali pericolosi, la dissenteria killer, la febbre di tutti i colori, il cercapersone collegato alla unità di crisi della Farnesina ed i beach boys che ammaliano e seducono le indifese donzelle con pozioni magiche al cocco. Al lato opposto del tavolo, chi ci risollevava da questa depressione servendoci dolci piatti, elencandoci tutte le bellezze del posto, coccolandoci e donandoci tranquillità e serenità con aneddoti quotidiani degni di un best seller: spiagge incontaminate (se non dai beach boys), cibo buonissimo, alta qualità della vita (piu’ per noi mzungu), locals cordiali ed ospitali, alto livello di sicurezza, paesaggi idilliaci.. Finalmente uno spiraglio di luce aveva raggiunto i nostri occhi, facendoci pensare che si…forse avevamo fatto la scelta giusta. Nel mentre, a condire i piatti dolci e quelli salati, gli implacabili media che, mercenari senza scrupoli dell’informazione/disinformazione, passavano dal raffigurare il Kenya come paese a rischio e come paradiso a giorni alterni assecondando il meteo. Bene, comunque vada sarà un successo.. Siamo stati la prima volta a dicembre 2015 e, causa un male difficilmente curabile quale è il lavoro (nella nostra realtà di mondo..), una seconda volta più di un anno dopo, a gennaio 2017: questa volta toccando anche l’isola di Lamu, dove abbiamo rasentato follia ed incoscienza secondo gli hooligans della malinformazione.
Dopo due volte nel continente nero, abbiamo iniziato a capire cosa sia “la nostra Africa”.
Nostra, e perchè mai poi?
L’Africa non è nostra, ognuno ha la sua..dipinta con colori e sfumature diverse a seconda di come la si ha vissuta; si, vissuta, l’Africa si vive come una bella canzone ad occhi chiusi ballando senza scarpe ed inebriandosi delle emozioni che ci dà in ogni istante.
L’Africa puo’ essere la medicina che cura tutti i mali (un po’ come il Dr. Rafiki di Malindi..) o la prigione di chi ha paura delle proprie paure, di chi si ostina a voler portare con sè il pesante bagaglio che la sua parte di mondo civilizzato (su questa parola, avrei de dubbi…) gli ha “gentilmente” appioppato sulla schiena. In Kenya, come dice un carissimo amico che vive a Malindi da anni, tutto va pole pole ma una cosa è sempre accelerata: il karma..e questo fa davvero paura a chi, con esso, ha un rapporto belligerante. Qui scopri presto la persona che vive dentro di te, quella vera, quella senza vestiti come i bambini del bush; ti spoglia, elimina le maschere che volente o nolente devi indossare quotidianamente nello stesso mondo “civilizzato” che difficilmente ti lasci alle spalle.
E resti “solo” un uomo.
Anche questa fragilità a qualcuno fa paura. Per qualcun altro invece, è pura illuminazione.
Ti uniforma e ti sbatte in faccia la dimostrazione che siamo tutti “ndugu” (fratelli) seduti sulla stessa “dhow” (barca), remando per lo stesso traguardo: una vita dignitosa.
Spesso ci sono posti privilegiati e posti sfortunati, c’è chi rema di piu’ e chi di meno ma… se la barca affonda, affondiamo tutti.
Anche se sempre per poco tempo, grazie alla pazienza ed amicizia (che chiamerei più vera fratellanza, famiglia..) della coppia di nostri amici italo-malindini, abbiamo visitato parte del Kenya con gli occhi ed il cuore di un viaggiatore e non di un turista.
Abbiamo vissuto le strade affollate e trafficate di Nairobi, Malindi e Mombasa dove noi italiani abbiamo insegnato bene l’utilizzo del clacson, sentito sotto i piedi la sabbia delle spiaggie di Watamu, Che Shale, Papa Remo e molte altre, versato qualche lacrima nell’attraversare il bush o la Tsavo road inseguiti da “bande” di bambini “ciao caramella”, degustato la vera cucina swahili nei vari ristorantini local come Simba Dishes dove si respira realtà e non fiction, condiviso un ottimo tamarind juice in qualche baretto sperduto sulla statale e goduto di una Tusker al tramonto in barca a vela; abbiamo interagito con la gente, domandato e risposto, dato e ricevuto. Ci è stato regalato del cibo un paio di volte, con il valore che ha in questo paese.
Abbiamo imparato tanto e molto vogliamo ancora imparare.
Questo è viaggiare.
“Non c’è uomo piu’ completo di colui che ha viaggiato, che ha cambiato venti volte la forma del suo pensiero e della sua vita” (Alphonse de Lamartine).
Siamo stati “attaccati” dai sorrisi delle “mama” che spaccano il corallo dalla mattina alla sera, “circondati” dai “watoto” (bambini) che non perdono l’occasione di salutarti e chiederti una caramella..o spesso se ne stanno in silenzio osservandoti perchè pensano tu non voglia un contatto con loro..ma presto tornano bambini con due battute e due boccacce; siamo stati “derubati” dalle “nyanya” (nonne) che ci hanno caricato il prezzo del mango di ben 10 scellini, torturati da tutti i “jambo e karibu” della gente che incrociavamo ovunque siamo stati, dove un sorriso è sempre stato ricambiato da altrettanto. Se questo significa “pericoloso”, bene..ci sentiamo meno sicuri nel progresso del mondo in cui ancora viviamo, dove forse la percezione del pericolo è differente perchè mascherata e donataci con la pillola dell’informazione dalla quale pendiamo. Non serve piu’ pensare con la propria testa, abbiamo chi pensa per noi. Ma no, ci sentiamo in pericolo perchè non vediamo un futuro che non sia quello già programmato indebitandoci una vita per avere un tetto sopra la testa e lavorando dalla mattina alla sera per guadagnare di piu’ (ma spendere anche di piu’..) solo per tirare fuori la testa dall’acqua e magari permettersi una bella macchina o un bell’orologio e magari vedersi un paio di ore la sera se non si è nervosi per la giornata. Questo è cio’ che a noi fa paura davvero.
“Quello che mi sorprende degli uomini è che perdono la salute per fare i soldi e poi perdono i soldi per recuperare la salute. Pensano tanto al futuro che dimenticano di vivere il presente in tale maniera che non riescono a vivere né il presente né il futuro. Vivono come se non dovessero morire mai e muoiono come se non avessero mai vissuto." (Dalai Lama)
L’uomo ricco è chi ha tempo di godersi la famiglia e di godere di ciò che la vita ha da offrire, hakuna matata. E allora, lasciateci sognare di tornare presto, magari per piu’ tempo..nella, anche un po’ nostra, Africa. Ancora quasi un anno al prossimo giro in Kenya, così vicino e così lontano, per poterci togliere i vestiti nuovamente ed intraprendere un altro viaggio dentro noi stessi.
Come canta Michele Zarrillo, “non sai che dolore sognare per chi non può mai”.
Kwaheri Kenya, ninakukosa
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