KENYA IN TAVOLA
01-08-2017 di redazione
Ben conosciamo la storia e i travagli del continente africano: pochi ceppi e migliaia di tribù sparse su una superficie di circa 30 milioni di chilometri quadrati, che hanno pagato un amaro dazio all’evoluzione del mondo occidentale, subendo eguale trattamento in ogni angolo della loro terra selvaggia e assolata.
Così come i popoli e la natura, anche la cucina ha risentito della colonizzazione europea, che affonda le sue radici ancor prima del diciottesimo secolo.
Arabi e portoghesi, cinesi e indiani, perlopiù mercanti e avventurieri, avevano già invaso le coste e circumnavigato Capo di Buona Speranza, quando il Vecchio Continente decise di piantare le tende nelle foreste, ai margini dei deserti, alle pendici delle montagne o degli altipiani, dopo aver risalito il corso dei fiumi e aver scoperto laghi e cascate. Anni dopo i sentieri tracciati dagli esploratori sarebbero diventati piste battute dai primi fuoristrada, la savana sarebbe stata divisa dalla ferrovia e sarebbero apparsi i primi aeroporti.
Eppure in gran parte dell’Africa il pranzo e la cena sono rimasti gli stessi di quando l’uomo bianco non esisteva. Una ciotola di riso, un brandello di carne quasi carbonizzato da un rudimentale barbecue, una manciata di polenta da lavorare con le mani e intingere in un misero sugo, una tazza di tè che pare acqua sporca, infestata dagli insetti. Questa è l’immagine che spesso ci riconduce al cibo africano. Impossibile non pensare alla fame nel mondo, alle carestie, alla povertà e alle condizioni climatiche e geologiche che condizionano la vita di milioni di persone.
L’iconografia tradizionale del bambino che chiede l’elemosina al turista, purtroppo, è ancora attuale ma sta lasciando spazio, fortunatamente, all’insorgere della consapevolezza di un continente in via di sviluppo (anche se lentamente e con relativi nuovi problemi), che cerca di scrollarsi di dosso le imposizioni della storia e quella sorta di fatalismo che ne ha causato la secolare sottomissione.
Attraverso la cucina, possiamo apprezzare come umiltà, sfruttamento delle risorse primarie e soddisfazione del palato possano sposarsi con armonia e raffinatezza.
L’Africa orientale e subequatoriale, ad esempio, è ricca di prodotti della natura e non mancano gli elementi fondamentali del nutrimento. Possiamo senza dubbio affermare che in Kenya, ad esempio, manchi soltanto l’olio d’oliva tra gli ingredienti principali della gastronomia mondiale (ma anche la cucina cinese, tra le più varie e importanti del mondo, ne fa a meno).
In Sudafrica si produce dell’ottimo vino, valutato tra i migliori in assoluto del nostro pianeta, le fertili acque dell’Oceano Indiano pullulano di ogni varietà di pesce e crostacei; gli alberi da frutto, perlopiù tropicali, hanno permesso innesti e creato piantagioni di prodotti tipicamente mediterranei, oltre a quelli dolcissimi locali.
In questa pagina troverete quindi una visione a trecentosessanta gradi della cucina dell’Africa Orientale, dai piatti tipici tribali alle modifiche apportate nel tempo dagli arabi e dagli indiani, fino alla contaminazione che in questi ultimi cinquanta anni ha mescolato la concezione anglosassone del condimento con le spezie mediorientali, la cucina di pesce mediterranea con i forti sapori indiani, la raffinatezza francese e italiana con le esigenze di un popolo abituato a considerare il cibo come un insapore, necessario, semplice fabbisogno biologico quotidiano.
Come già appuntava lo scrittore Ernest Hemingway, che amò soggiornare in Kenya e in Tanzania, si vedrà che godere degli splendidi frutti che questa terra offre e – aggiungiamo noi – miscelarli con gusto, parrà qualcosa di più che una cena particolare: vorrà dire assaggiare le nostre origini, le nostre radici, quanto di più vicino c’è a Madre Natura, all’essere umano. Senza per questo rinunciare al piacere della buona tavola e scoprire l’esotismo in cucina.
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Watamu la bella.
Malindi la magica.
Watamu la giovane e frizzante.
Malindi antica ma ancora interessante.