STORIE
19-07-2018 di Freddie del Curatolo
Padre Paul Ogalo è il parroco di Rapogi, un piccolo sobborgo di Migori, nella regione keniana del Lago Vittoria.
Una delle tante baraccopoli povere ai margini della cittadina che è uno dei simboli della disuguaglianza sociale che attanaglia il Kenya e che rende ancora poco sostenibile il suo sviluppo economico.
A Migori da qualche anno viene estratto l'oro, tanti ragazzi di quei sobborghi lavorano nelle miniere, che poi non sono vere e proprie miniere, ma tunnel stretti e bui nei quali per l'appunto ci si infilano meglio gli adolescenti.
Ogni tanto alcuni di loro rimangono intrappolati e così sia.
Altri invece si fanno furbi e cercano di trattenersi qualche ricordino, ma vengono spesso beccati e licenziati.
Nello slum di Rapogi niente luccica e il piatto di legumi quotidiano è un miraggio che spesso costringe alla sola polenta.
Padre Paul ogni domenica indossa i paramenti liturgici e dice messa per questa gente.
Da tempo si è accorto che alle funzioni religiose mancano proprio le nuove generazioni, quelle che più risentono della povertà e che sfogano la rabbia di non avere un futuro in atti teppistici, bruciando le scuole (la zona di Homa Bay, il capoluogo di riferimento conta ormai un incendio alla settimana) ed abbracciando la microcriminalità e la droga.
Così Padre Paul, quarantacinquenne appassionato di musica moderna, ha deciso di abbinare alla messa tradizionale, nella sua chiesa di Santa Monica, una serie di "prediche rap". Smette i panni del parroco tradizionale, ripone la stola e al suo posto indossa una vistosa bandana colorata e una camicia casual.
Alza il volume degli speaker, fa partire la base e inizia a rappare, muovendo le mani come i celebrati artisti del panorama nazionale: Octopizzo, Kaligraph Jones, Diamond Platnumz. Le sue filastrocche ritmate convocano Dio e Gesù cristo in quelle strade povere e cercano di smuovere le giovani coscienze chiedendo loro di andare incontro alla speranza, alla vita, senza attenderla mollemente e subirla passivamente, per poi sfogarsi in maniera sterile e autolesionista.
Così in poco tempo Padre Paul Ogalo, con il soprannome di "Father Masaa" o anche "Sweet Paul", ha richiamato molti più adolescenti e in generale più persone alle funzioni domenicali. Arrivano anche dagli altri slum e dai villaggi in campagna.
Tutto questo bailamme e l'accompagnarsi con la nuova "musica del diavolo" (che una volta era il blues, sic!) non è piaciuto alla Diocesi di Homa Bay, che ha subito informato il Vescovo di Kisumu della condotta poco ortodossa (o meglio dire, poco cattolica) di Padre Paul, chiedendone la sospensione fino a che il parroco non si fosse ravveduto e fosse tornato a pronunciare prediche in maniera tradizionale, al limite gospel.
Qualche giorno fa Padre Charles Kochiel, Vicario del Tribunale interdiocesano di Kisumu, terza città del Kenya, ha confermato la sospensione a tempo indeterminato per il prete rapper.
"Io non mi fermo - ha dichiarato Sweet Paul - questo è il modo più diretto per arrivare ai miei ragazzi e toglierli dalle lusinghe della strada. E' una dottrina in cui credo e in cui metto passione".
Vallo a spiegare a chi ancora collega il significato di "passione" alla sofferenza di Cristo sulla croce.
Oggi la sofferenza si rivela in maniere più nascoste, subdole e nocive per la società e per le future generazioni, e bisogna combatterla con un linguaggio nuovo, non solo con la preghiera e il buon esempio.
E se deve essere rap, che magari non è un granché come musica ma è sicuramente il linguaggio internazionale più vicino ai giovani d'oggi, ben venga.
Yo, Yo Father Paul!
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